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I
mistici del vegetale:
Piante psicotrope e stati alterati di
coscienza nella selva amazzonica
Antonio
Bianchi
Il
paradigma psichedelico
La mia
esperienza verso l'uso delle piante psicotrope, allo scopo di
indurre stati alterati di coscienza, è avvenuta nella selva
peruviana, attualmente invasa da giovani occidentali alla
ricerca di stati mistici di comunione con la natura, attraverso
l'uso di una particolare bevanda allucinogena. Mi dilungherò
quindi ad illustrare ciò che io chiamo il paradigma
psichedelico, ovvero l'uso di sostanze allucinogene al fine di
arrivare a stati non ordinari di consapevolezza, e la sua
evoluzione in occidente negli ultimi 20 anni.
A parte
il termine psichedelico, oggetto di un'annosa controversia tra
vari studiosi del campo (1), il vero e proprio precursore
dell'uso di sostanze allucinogene per arrivare a stati di
coscienza definibili come alterati in senso religioso, è senza
dubbio Aldous Huxley, che fu il primo, in una maniera quanto mai
suggestiva ed a volte persino poetica, ad ipotizzare un uso
della mescalina per aprire ciò che egli definiva come le porte
della percezione (2). Per Huxley, la sostanza chimica era una
specie di catalizzatore che per un attimo mandava in tilt quel
complesso sistema di inibizioni sensoriali che permettono al
nostro cervello di funzionare nella vita ordinaria: il risultato
era un'apertura ad una esperienza percettiva che nelle forme più
pure egli non esitava a definire mistica. Fu senza dubbio
Timothy Leary (3) a raccoglierne negli anni '60 l'eredità, anche
se il suo proselitismo a volte fanatico contribuì non poco a
ghettizzare l'uso delle sostanze allucinogene negli ambienti
culturali underground e conseguentemente a renderle ben presto
illegali. A lui va comunque riconosciuto il merito di averne
teorizzato l'impiego come equivalente occidentale delle pratiche
orientali di meditazione (4) e soprattutto nell'avere
individuato nel set e nel setting, cioè nell'atteggiamento
psicologico e nell'ambiente fisico ove avviene l'esperienza, due
importantissime variabili.
Nei primi
anni '70, comunque, apparve un altro testo scritto da un giovane
antropologo peruviano che si stava laureando all'Università di
Los Angeles, dall'affascinante titolo di "A scuola dallo
stregone". Carlos Castaneda (5) iniziava una saga che porterà
migliaia di giovani prima in Messico alla ricerca dei misteri
connessi all'uso del peyote, la Lophophora williamsii, pianta
divinizzata nello sciamanesimo Huicholes e Tarahuamara, e poi
più giù in Colombia, Ecuador e Perù fino ad immergersi nello
sciamanesimo amazzonico e nelle sue magiche pozioni. Molto è
stato scritto e detto pro e contro Castaneda e molti oggi
pensano che i suoi testi vadano classificati nel genere finction
piuttosto che in quello etnoantropologico (6). A parte che una
probabile ambientazione romanzata del suo reportage può non
avere impedito all'Autore di avere inserito in essa delle
esperienze vissute, e chiunque abbia provato il peyote si rende
immediatamente conto di come Castaneda parli per propria
esperienza, il merito dell'Autore non sta tanto nella veridicità
di quanto racconta, quanto da un lato nell'aver suscitato un
grosso interesse per lo sciamanesimo, prima considerato
argomento riservato a musei e filologi, e dall'altro nell'aver
dimostrato come l'uso di droghe e piante allucinogene debba
trovare il suo impiego nel ristrutturarsi delle capacità
percettive dell' "apprendista stregone" ed essere a questo
finalizzato e limitato. L'importanza di una simile affermazione
risalta immediatamente quando analizziamo il lavoro di molti
altri autori ove traspare come questi ultimi tendano, viceversa,
ad assimilare l'uso di determinate piante psicoattive che
possono indurre degli stati alterati di coscienza di natura
religioso-sciamanica con quello stesso stato alterato di
coscienza.
Tale
errore si basa probabilmente su un paradigma farmacologico per
il quale la natura chimica specifica della sostanza interagisce
con determinate strutture cerebrali, producendo invariabilmente
determinati risultati o, comunque, risultati di un certo tipo.
Tale visione è comune ad eminenti studiosi di etnobotanica,
antropologia, chimica e neuroscienze, per i quali la pianta o la
sostanza allucinogena finiscono con l'essere più importanti del
contesto, in senso lato, in cui le si assume. Sulla base di tale
paradigma, le variabili individuali osservate nell'assunzione di
certe sostanze finiscono con l'essere riconducibili a
idiosincrasie psicologiche e considerate una specie di disturbo
dell'esperienza stessa.
La mia
esperienza in Amazzonia è, viceversa, che ciò che rende
sciamanico l'uso di una determinata pianta è l'importanza
attribuita a determinate forze, psicologiche e non, nel
determinare se essa indurrà uno stato alterato di coscienza e
quale sarà il suo contenuto. La droga, in altre parole, può sia
rompere che modellare una determinata percezione del mondo: nel
primo caso siamo davanti ad un uso di questa di natura ludica,
che si basa su una interpretazione neurofisiologica, nel secondo
ad un suo uso sciamanico la cui natura tenteremo di comprendere
parzialmente più avanti.
Tale
lezione è stata ben compresa da Michael Harner (7), un
antropologo americano che, dopo aver passato due anni a bere
l'Ayahuasca con gli indiani Jivaros dell'Ecuador, ha dedicato la
sua vita ad elaborare una serie di metodiche per indurre le
stesse esperienze "strutturanti" senza l'impiego di piante
allucinogene. E' grazie a tali studi che ci si può rendere conto
come il problema per lo sciamano non consista tanto nell'
"aprire le porte della percezione", per il quale dispone
oltretutto di una vasta serie di pratiche, quanto di quello che
accade dopo.
I lavori
di Castaneda, Harner, ma anche della Donner (8) e di Lamb (9),
ci insegnano che lo sciamano è molto più interessato a
ristrutturare il modo di percepire il mondo dell'adepto che a
destrutturarlo ed anzi la fase di destrutturazione è sempre
considerata molto pericolosa. Quello che rende diversa
l'esperienza di una Maria Sabina rispetto a quella di
un'impiegata newyorchese che ingerisca una certa quantità di
funghi psilocibinici nel suo appartamento, magari ascoltando le
musiche dei Rolling Stones, non è solo il tipo di funghi o la
qualità di principio attivo, né il modo in cui affrontano una
destrutturazione del loro percepire il mondo, che al limite può
essere simile, ma ciò che accade dopo. "Un indigeno non
ingerisce mai l'Ayahuasca per vedere - come ha riferito il mio
informatore Shipibo - ma per imparare". E l'atto dell'imparare è
infinitamente più complesso di quello del semplice vedere delle
visioni, per il quale probabilmente basta una semplice
disinibizione dei canali percettivi. E' probabilmente questo ciò
che sfugge ad eminenti studiosi: non sono tanto le varie piante
allucinogene al centro dei differenti culti sciamanici, quanto
il modo di impiegarle. Ed è probabilmente per questo che il
movimento psichedelico è rimasto un fenomeno culturale e non è
mai diventato un'esperienza religiosa, come ambiva, mancando di
quelle caratteristiche proprie dell'uso degli allucinogeni nei
contesti aborigeni.
Le
affermazioni di Castaneda ed Harner non sono rimaste comunque
lettera morta: l'interesse per lo sciamanesimo è letteralmente
esploso nella West Coast alla fine degli anni '80. Oggi esiste
una rivista specializzata in "sciamanesimo esperenziale",
Shaman's Drum, che tira oltre 80.000 copie, innumerevoli agenzie
e associazioni propongono viaggi e gruppi di incontro, magari
con l'uso di piante psicoattive, mentre anche in Inghilterra e
Nord Europa si va affermando un movimento che, partendo
dall'interesse per lo sciamanesimo ed i culti matriarcali,
sconfina nella psicologia transpersonale di Stanislav Grof (10),
nelle teorie di Gaia di Jim Lovelock (11), nella Deep-Ecology di
Joan Halifax (12) e nella salvaguardia della biodiversità e dei
diritti dei popoli indigeni. Un tale movimento è però
radicalmente diverso da quello degli anni '60, per cui è, a mio
avviso, improprio ed errato parlare di nuova psichedelia. Allora
il movimento psichedelico era nato nelle marce di protesta
contro la guerra del Viet Nam come un movimento di radicale
rifiuto dei valori dell'American Life Style, e forse per questo
aveva enfatizzato i valori destrutturanti dell'esperienza
psichedelica. Oggi non esiste alcuna connotazione di protesta e
le premesse ideologiche dei giovani che viaggiano nel Sud del
mondo alla ricerca di nuove esperienze visionarie portano ad una
generale accettazione dei valori culturali dominanti: lo
sciamano affascina non come elemento di rottura, ma come figura
sincretica che preserva una atavica saggezza pur convivendo con
le contraddizioni del mondo moderno. In questo senso il
paradigma psichedelico, con le sue utopie, è ormai defunto. Oggi
nessuno pretende più di cambiare il mondo e chi ingerisce una
pianta allucinogena percuotendo il suo tamburo sciamanico,
magari acquistato per corrispondenza da un rivenditore
specializzato del New Mexico, chiede solo di uscire da questo
mondo in cui una realtà resa sempre più virtuale dal dilagare
dei mass-media preclude qualsiasi spazio interiore. Che poi lo
faccia nel caldo asfissiante della foresta amazzonica o in un
raffinato e confortevole centro della "Nuova Era" californiano è
questione di scelta e temperamento.
Pucallpa
Pucallpa
è sicuramente l'agglomerato urbano Amazzonico dove è più facile
stabilire dei contatti con le comunità indigene che, nel caso
degli Indiani Shipibo, arrivano a vivere praticamente alla
periferia della città. Gli Shipibo sono un'etnia decisamente
acculturata, di lingua Pano, che comprende 16-20.000 persone
raggruppate in villaggi, mediamente costituiti da 150-200
individui, stanziati lungo il fiume Ucayali ed i suoi affluenti,
a Nord e a Sud di Pucallpa. Si tratta di una popolazione
tipicamente fluviale, che dipende dal fiume in maniera
essenziale tanto per le comunicazioni quanto per l'economia: in
questo si differenziano da popolazioni vicine come gli Ashaninka,
i Piro, gli Amahuaca, decisamente più inseriti nell'ecosistema
della foresta piuttosto che in quello fluviale.
Da un
punto di vista sociopsichiatrico, la convivenza più stretta di
più famiglie Shipibo ha portato negli ultimi decenni ad un
incremento pauroso di tutte quelle sindromi psicopatologiche,
culturalmente tipiche del mondo Amazzonico, che sono un segnale
fedele del livello di stress sociale delle comunità native. Tra
esse va menzionato il susto, o spavento, il dano, o danno,
causate dall' envidia dei vicini, il mal de ojo, o malocchio, il
mal de aire, o mal d'aria provocato da venti naturali che
entrano in un corpo privo di difese. Sono tutte sindromi che
possono assumere vari quadri sintomatologici, caratterizzati per
lo più da una non-specificità dei segni, concomitante ad uno
scadimento generale dell'organismo.
E' questo
il campo specifico di applicazione dell'arte sciamanica di cura,
anzi è l'unico campo ancora di competenza dello sciamanesimo. La
recente integrazione delle comunità native nella vita
politico-sociale della regione ha infatti privato lo sciamano
delle sue funzioni di leadership carismatica a vantaggio di
nuove figure istituzionali imposte dal governo centrale, mentre
in campo terapeutico una maggiore efficienza dei servizi
sanitari statali ne ha ulteriormente ridotto la sfera di
competenza. Lo sciamano ha risposto a questa crisi di potere
specializzandosi, per così dire, in un settore specifico che può
genericamente essere definito come psicosomatico, inteso come
"benessere globale della persona". E' sorprendente come il
sincretismo Amazzonico abbia portato il locale sciamanesimo, in
crisi di valori e di ruolo politico, all'interno della comunità,
a rispondere a questa sfida, in maniera estremamente moderna
attribuendo allo sciamano quelle competenze che nella nostra
sofisticata società sono proprie dello psicoterapeuta.
L'affinità, comunque, non deve trarre in inganno: a mio avviso,
infatti, esistono marcate differenze tra le due figure
professionali, evidenziabili, ad esempio, dal differente
approccio al paziente: nello sciamanesimo Amazzonico la storia
individuale del malato è abbastanza trascurabile essendo
l'attenzione del terapeuta tutta focalizzata ad individuare i
conflitti del mondo degli spiriti attraverso la visione indotta
dall'uso di piante psicotrope, tra cui, per importanza ed
effetti, merita una menzione particolare l'Ayahuasca. Lo
sciamano, attraverso l'ingestione di questa, cerca
disperatamente di "vedere" le cause della malattia, spesso
indipendentemente dai sintomi manifestati, evitando
deliberatamente di attribuire a questi quella importanza che è
la base stessa del lavoro dello psicoterapeuta moderno (13).
Ayahuasca:
la liana degli spiriti
Comprendere il ruolo e la funzione dell'Ayahuasca significa
probabilmente penetrare nell'essenza più profonda dei misteri
della foresta Amazzonica. Sfortunatamente, oggi, che di questa
bevanda allucinogena si parla con sempre maggiore frequenza,
anche in ragione del suo diffondersi al di fuori della foresta
Amazzonica, sembra che alla maggior quantità di articoli che
compaiono sulle varie riviste specializzate corrisponda una più
diffusa superficialità nel trattare l'argomento. E questo non è
dovuto semplicemente alla minore disponibilità da parte dei
ricercatori a trascorrere lunghi periodi di tempo
nell'inospitale ambiente Amazzonico, ma anche ad un generale
riduzionismo nel trattare l'argomento. E' qualcosa che
tipicamente avviene quando un argomento, favoleggiato per lunghi
anni, diventa rapidamente accessibile, magari standosene
comodamente seduti in qualche tranquillo centro di terapie
olistiche. Si passa cioè da una fase in cui non si comprende ma
si percepisce appena l'importanza del contesto sciamanico nello
strutturare l'esperienza visionaria, percezione che va maturando
e rafforzandosi in maniera proporzionale al tempo speso tra le
varie etnie dagli antropologi delle scorse decadi, ad un
approccio riduzionistico secondo cui, essendo l'esperienza
adatta a grandi gruppi di persone eterogenee, deve quindi essere
descrivibile secondo pochi standard generali. Ciò è dovuto, per
lo meno in parte, al rapido diffondersi di nuove religioni
sincretistiche dall'Amazzonia Brasiliana, che hanno raggiunto
larghe fasce di popolazione urbana.
Sulla
base di quanto detto, non sono pochi gli Autori che considerano
i fenomeni religiosi che si stanno sviluppando nell'Amazzonia
Brasiliana - ed in particolare la setta del Santo Daime e dell'Uniao
de Vegetao- come completamente indipendenti rispetto allo
sciamanesimo Amazzonico, in aperto contrasto con quanto
affermato dagli adepti di queste nuove religioni. Riconoscendomi
pienamente in tale tesi tralascerò di menzionare queste recenti
esperienze richiamandomi piuttosto ai vari studi sull'uso della
bevanda in ambiente aborigeno.
L'Ayahuasca è, di fatto, un decotto ottenuto attraverso una
lenta ebollizione di due piante: una liana, scientificamente
etichettabile come Banisteriopsis caapi, ed un arbusto, noto
come Psychotria viridis. Nella liana sono contenuti degli
alcaloidi di natura beta-carbolinica, come l'armina e l'armilina,
nella Psychotria viridis, che gli indigeni dell'area di Pucallpa
chiamano chacruna, degli alcaloidi di natura dimetiltriptaminica,
dotati sicuramente di attività allucinogena in maniera simile
all'acido lisergico (competitori del sistema serotinonergico).
Poiché questi ultimi composti sono inattivi per via orale e le
beta-carboline non hanno dimostrato un'attività allucinogena se
somministrate da sole, è stato proposto che l'azione delle
beta-carboline consista solamente nell'inibizione delle
monoaminoossidasi, che inattiverebbero le molecole
dimetiltriptaminiche, permettendo così ad esse di esplicare
tutto il loro potere allucinogeno (14). Secondo tale
prospettiva, la Psychotria viridis sarebbe quindi l'elemento
essenziale nel provocare le allucinazioni indotte dalla bevanda.
Tale ipotesi è tuttavia contraddetta da tutti i curanderos della
selva con cui ho parlato, i quali affermano viceversa che è la
liana che dà la forza e lo spirito alla pozione magica ed anzi,
qualcuno di essi è arrivato ad affermare di ingerire spesso solo
la liana, senza chacruna,, soprattutto quando la prima è
raccolta nel profondo della selva e pertanto particolarmente
potente.
Probabilmente, a mio avviso, è in diatribe come questa che si
scontrano differenti paradigmi culturali, ove l'impostazione
chimico-farmacologica occidentale è incapace di comprendere la
complessità di una concezione sciamanica dell'esperienza
visionaria, per la quale le allucinazioni possono essere una
componente tutto sommato trascurabile.
A parte
queste considerazioni, l'Ayahuasca, intesa come bevanda sacra,
patrimonio delle tradizioni sciamaniche native ha affascinato
gli studiosi occidentali, fin dai primi contatti: è infatti già
Richard Spruce, nella metà del secolo scorso, ad incontrare
l'uso della bevanda tra gli Indiani Tukano del Vaupes Colombiano
e a dedicarvi alcuni interessanti scritti (15). L'equadoregno
Manuel Villavicencio la incontrerà nel Rio Napo e sarà il primo
non indiano a sperimentarne gli effetti psicoattivi (16).
L'esploratore tedesco Theodor Koch-Grunberg ne descriverà il
rituale, sempre tra gli indiani Tukano dell'Amazzonia
Colombiana, all'inizio del secolo (17), mentre nel 1912 un
articolo piuttosto romanzato, comparso sul Times di Londra, ne
celebra i presunti effetti paranormali e telepatici. Spetterà a
Paul Reinburg pubblicare nel 1921 sul Journal Soc. Americanistes
di Parigi una prima monografia sulla pianta (18), ma saranno
soprattutto gli studi di un giovane botanico nordamericano negli
anni '40, Richard Evans Schultes, inviato in Amazzonia dal suo
governo per studiare l'Hevea brasiliensis, l'allora
preziosissimo albero della gomma (siamo in piena seconda guerra
mondiale), a rendere accessibile al mondo accademico una
quantità impressionante di materiale botanico ed etnobotanico.
Schultes, che qualcuno comincia a considerare come uno dei
fondatori della moderna etnobotanica, diventerà negli anni '60,
insieme ad Albert Hofmann, lo scopritore dell'LSD, un punto di
riferimento per la cultura giovanile, sodalizio che culminerà
nella pubblicazione di un testo (19) considerato ancora oggi una
specie di Bibbia sulle piante allucinogene.
Il
contributo di Schultes fu senza dubbio importantissimo, grazie a
lui importanti questioni ed errori di tassonomia botanica delle
piante impiegate nello sciamanesimo Amazzonico vennero chiariti
ed egli va giustamente considerato come un pioniere non solo in
campo accademico ma anche nell'impegno ecologico per la
salvaguardia della biodiversità Amazzonica e delle conoscenze
indigene ad essa connesse. Contemporaneo di Schultes è il grande
antropologo tedesco Gerardo Reichel-Dolmatoff, che negli anni
'60 spese alcuni anni tra gli indiani Barasana e Dasana, gruppo
Tukano, del Vaupes Colombiano ed attraverso i suoi scritti (20)
ci ha fornito una descrizione relativamente dettagliata dell'uso
dell'Ayahuasca in un contesto aborigeno. Di notevole importanza
è il suo sforzo di individuare differenti fasi
dell'intossicazione della bevanda e di collegare gli effetti
psicofisici di questa alla complessa mitologia e cosmologia
indigena, anche se il suo richiamo alle teorie neurofisiologiche
di Knoll e Kugler (21) sui fosfeni sembra un po' troppo
semplicistico. Secondo tale visione, gli elementi geometrici
dell'arte indigena sarebbero riconducibili a forme geometriche
impresse nella retina del soggetto e percepibili in determinati
stati, in cui le normali strutture nervose inibitorie vengono
chimicamente alterate: a parte la probabile partecipazione di
una simile componente, essa va tuttavia integrata in una
prospettiva molto più complessa, come rivelano recenti studi
sulla NDE (22).
Negli
anni '60 e '70, comunque, si assiste ad un notevole aumento di
pubblicazioni di vari antropologi che trascorso un certo periodo
di tempo tra le varie tribù dell'Amazzonia peruviana, riportano
l'impiego dell'Ayahuasca tra i vari sciamani. Janet Siskind (23)
lo descrive tra gli Sharanahua, una tribù estremamente isolata
che vive nell'alto Rio Purus ove lo sciamanesimo gode ancora di
notevole prestigio, Kenneth Kensinger (24) tra i Cashinahua, una
tribù limitrofa, mentre Gerardo Weiss ne sottolinea l'importanza
in una monumentale opera sugli Ashaninka (26), una ambigua
figura a metà strada tra il poeta e l'avventuriero.
In
particolare "Le tre metà di Ino Moxo" in un linguaggio surreale,
fantastico e visionario, che ben rende l'ambiente della foresta
Amazzonica, in cui tutto sembra diventare all'improvviso reale
ed un attimo dopo svanire in effimeri effetti illusori,
narrerebbero la vita di Ino Moxo, un bambino mestizo fatto
rapire da uno stregone Ashaninka ed iniziato da questi ai
misteri della selva.
Alcuni
ritengono che questa sarebbe una versione più romanzata
dell'avventurosa vita di Manuel Cordoba-Rios, già oggetto di un
altro testo scritto da Bruce Lamb (27) in forma di reportage
antropologico ed oggetto di un successo e polemiche simili a
quelle che accompagnarono le opere di Carlos Castaneda (28). Al
di là di tali questioni, resta innegabile il successo del libro
di Lamb tra le giovani generazioni degli anni '70: se Castaneda
ha contribuito non poco ai viaggi di molti in Messico alla
ricerca della "magica terra del peyote", il libro di Lamb li ha
fatti scendere ulteriormente fino ai lenti ed afosi affluenti
del Rio delle Amazzoni. Naturalmente questo centra ben poco con
lo sciamanesimo delle etnie indigene, ma se il lato deleterio è
stato un turismo superficiale e commerciale, per qualcuno è
stato l'inizio di un serio approccio al mondo dell'Ayahuasca e
forse anche un impegno civile al fianco delle popolazioni
indigene.
Vegetalismo:
i mistici del vegetale
Se fino
ad ora abbiamo parlato soprattutto del mondo indigeno, va
precisato che molti dei giovani occidentali alla ricerca di
nuovi significati esistenziali si fermavano alle poche città
della selva peruviana, facilmente raggiungibili con l'aereo:
Iquitos, Pucallpa e Madre de Dios. Questo era il regno dei
curanderos mestizos, termine generico con cui si indica una
larga fascia della popolazione amazzonica, praticamente tutti i
non-Indiani che vivono nelle città o nei villaggi lungo i fiumi
principali. Questo mondo, reso celebre dal lavoro di Marlen
Dobkin de Rios (29), è stato poi approfondito negli studi di
Luis Eduardo Luna (30). Il vegetalista è colui che ottiene le
sue conoscenze, di natura spirituale o comunque soprannaturale,
direttamente dalle piante o, meglio, dagli spiriti di queste
chiamate "madri", ed usa tali poteri a fini diagnostici o
terapeutici. Ciò avviene tramite l'ingestione di tali piante che
possiedono quasi sempre poteri allucinogeni: così abbiamo l' "ayahuaschero"
che ingerisce l'Ayahuasca, il "toero" che beve il succo del Toé,
Brugmasia suaveolens, il "camalonghero", che ingerisce la
Camalonga, una pianta di ancora incerta identificazione.
Naturalmente non tutti coloro che ingeriscono le varie piante
allucinogene sono automaticamente "vegetalisti": essi devono
prima attraversare un lungo e difficoltoso apprendistato
definito con il termine generico di "dieta", che consiste in un
isolamento nella foresta, in uno stato di quasi deprivazione
sensoriale, associato ad un regime dietetico particolarmente
duro, durante il quale l'adepto ingerisce frequentemente la
pianta prescelta fino a quando, dopo varie sofferenze, la
"Madre" o "spirito" della pianta , mossa a compassione, gli
appare concedendogli la sua benevolenza ed i suoi doni di
potere. Poiché tale insegnamento deriva direttamente dagli
spiriti delle piante, Luna le ha definite "piante maestro" (31),
identificandone una cinquantina: lo spirito di queste, chiamato
appunto "madre", è stato oggetto di un interessante studio da
parte dell'antropologo francese Jean Pierre Chaumeil (32). La
"madre" di una pianta può essere definita come l'essenza stessa
del potere generatore della pianta: esse appaiono allo sciamano
sotto forma di entità spirituali in grado di insegnare
conoscenze inaccessibili alle persone comuni. La percezione
della "madre" di una pianta maestro è la differenza fondamentale
tra uno sciamano ed un non sciamano, in quanto a differenza
delle comuni visioni, le "madri" non solo sono sempre veritiere,
ma anche in grado di trasmettere una qualche forma di
insegnamento. L'ingestione della pianta allucinogena è quindi
finalizzata al contatto con queste entità spirituali: man mano
che lo sciamano avanza nel suo cammino, egli acquisisce maggior
familiarità con esse, al punto che i più anziani possono
evocarne la presenza senza ingerire la corrispondente pianta
allucinogena semplicemente cantandone i rispettivi "canti", o "icaro".
Gli "icaro" di una pianta, diversi da sciamano a sciamano, e
donati a questi direttamente dalla "madre" della pianta, sono
canti che, intonati sotto l'effetto dell'allucinogeno,
permettono di evocarne la presenza: una volta che ciò avviene,
un buon sciamano può permettersi di manipolare il contenuto
visionario dei partecipanti alla sessione, aumentando o
diminuendo l'intensità delle visioni, inducendo determinate
allucinazioni ed evitandone altre. E' quindi lo spirito della
pianta, la "madre" di questa, in ultima analisi a conferire allo
sciamano il suo potere ed è attraverso di lei che egli può
esercitare la sua arte: per i partecipanti alla sessione,
viceversa, l'effetto dell'Ayahuasca consisterà in una serie di
visioni che appaiono come una sorta di fenomeno
elettromagnetico, che va e viene ad onde e può essere evocato e
modificato dal canto del "maestro". Questo ci porta a
considerare la differenza fondamentale tra l'effetto
dell'allucinogeno, in termini di contenuto visionario, in uno
sciamano ed in uno non sciamano. Si tratta della differenza tra
un'esperienza ritenuta culturalmente oggettiva (e quindi reale:
la percezione dell'essenza o "madre" delle piante maestro) ed
una esperienza soggettiva e quindi valida (o reale) solo per il
soggetto che ha le visioni (percezioni introspettive di se
stesso e/o di fatti che avvengono all'esterno). Quindi, mentre
le esperienze di autoguarigione, di comunicazione a distanza
(effetti telepatici) e di percezioni di eventi futuri (effetti
predittivi) hanno valore solo per il soggetto che le
esperimenta, e possono essere riconducibili ad un paradigma
psicoterapeutico o parapsicologico, secondo un approccio
"scientifico", le visioni sperimentate dallo sciamano e da
questi indotte, attraverso il contatto con la "madre" della
pianta allucinogena, vengono ritenute oggettivamente reali, e
quindi culturalmente non riconducibili ad alcuno dei nostri
paradigmi interpretativi, e come tali il potere o il sapere che
da esse deriva sono a beneficio dell'intera comunità.
Sciamanesimo
indigeno: oltre gli allucinogeni
Spetta a
Clara Cardenas, una giovane antropologa peruviana, l'aver
richiamato l'attenzione generale sulle differenze tra lo
sciamanesimo mestizo ed indigeno(34). Mentre il primo è
preminentemente individualista essendo l'attività anche
economicamente remunerativa, di un terapeuta nel proprio
contesto culturale, il secondo, forse memore di un tempo in cui
la propria attività non era limitata al settore terapeutico, è
sempre orientata verso la propria comunità, focalizzando il suo
intervento sulle complesse dinamiche sociali e spirituali che
accompagnano la malattia. I più anziani sciamani Shipibo, o
comunque quelli ritenuti di grado più elevato, i "Muraya", poi
difficilmente usano, a differenza dei mestizos, la bevanda
allucinogena per tutta la vita. Gli Shipibo, infatti, ritengono
che i loro Muraya vivano in uno stato di "estasi permanente", in
perenne contatto con le "madri" delle piante-maestro, di cui
possono evocare la presenza ed il potere in qualsiasi momento
senza ingerire alcuna sostanza allucinogena. Il contatto con
tali entità spirituali li rende generalmente poco partecipi alla
vita terrena: essi si appartano, un po' isolati dalla comunità,
alimentandosi poco e realizzano un quadro comportamentale molto
simile a quello descritto in famose opere sullo sciamanesimo
siberiano o asiatico (35). Il contenuto poi di tale stato
implica che lo sciamano viva più nel mondo degli spiriti che in
quello dell'uomo: ciò si riflette dall'elevata frequenza con cui
i Muraya affermano di vivere esperienze che, nel moderno campo
degli studi sugli stati di coscienza, vengono etichettate come
"Out of Body Experiences", in cui cioè lo spirito dello sciamano
afferma di separarsi dal corpo fisico e di intraprendere
continui viaggi in altre dimensioni della realtà. A tale
proposito mi é particolarmente a cuore sottolineare come durante
l'ingestione dell'Ayahuasca tutti gli sciamani Shipibo con cui
ho lavorato hanno sempre manifestato un palese disinteresse per
il contenuto delle mie visioni: per essi ciò che realmente
contava era solo se la bevanda provocava "mareacion" o no! Il
termine "mareacion", dallo spagnolo marear , soffrire il mal di
mare, indica non tanto gli effetti fisici della bevanda, quanto
un ondeggiare tra la propria immagine e la percezione del
proprio corpo fisico, un fluttuare del proprio io ai limiti ed
oltre ciò che normalmente percepiamo come corpo fisico. Questo è
l'interesse principale manifestato dai miei informatori, mentre
le visioni venivano dette essere importanti solo come
facilitatori visivi di tale processo. "Voi occidentali avete
troppa fantasia - era solito dire il vecchio don Antonio - così
vi perdete dietro le visioni e non vi accorgete di quanto grande
sia il dono dell'Ayahuasca, l'importanza di una buona e forte "mareacion".
E'
davanti a queste affermazioni che si è fatta strada sempre più,
in me l'idea che il nostro approccio chimico-farmacologico abbia
finito con il diminuire il complesso sistema di manipolazione
dello stato di coscienza connesso con l'uso dell'Ayahuasca, la
bevanda sacra degli indigeni dell'Amazzonia. Non si tratta
assolutamente di un'esperienza "psichedelica" nel senso di
allucinazioni chimicamente indotte da una sostanza naturale, ma
anzi di un elaborato insieme di strategie e tecniche per
manipolare la percezione stessa della realtà. E per realizzare
questo si inizia dalla percezione della propria immagine fisica
probabilmente perché è su di essa e attraverso essa che
costruiamo la percezione del mondo in cui viviamo. Solo in
questa prospettiva si può comprendere perché tutte le mitologie
aborigeni hanno sempre affermato che il mondo delle visioni
indotte dall'Ayahuasca veniva percepito più reale di quello
quotidiano: non si trattava di semplici allucinazioni visive, ma
di una completa percezione tridimensionale quale si ritrova
descritta nella letteratura sulle OBE o sulle NDE. E, d'altra
parte, in tale ottica si può anche comprendere perché numerose
piante-maestro non siano classificabili come allucinogeni ma,
probabilmente, pur inducendo uno stato di mareacion, esse non
necessariamente debbano produrre un quadro di immagini
strutturate come quello che noi definiamo allucinazioni. Lo
scopo delle allucinazioni sarebbe, secondo i nostri informatori,
soprattutto quello di canalizzare visivamente lo stato
percettivo di "mareacion", in cui il soggetto non sperimenta più
il mondo dalla prospettiva del proprio corpo fisico. Quando
queste nuove prospettive possono essere paragonate, sulla base
della letteratura esistente, ad altri stati di consapevolezza
come le OBE e le NDE, è impossibile stabilirlo sulla base dei
dati attuali e dubito lo sarà anche in futuro.
D'altra parte, se il principale errore fino ad oggi commesso è
stato quello di ridurre un insieme di fenomeni complessi come
quello dello sciamanesimo amazzonico secondo un paradigma
chimico-farmacologico, non vorrei che in futuro si verificasse
un'eccessiva facilità nell'omologarlo a quanto di simile avviene
nei nostri paradigmi culturali. Siamo solo dei piccoli uomini,
con una comprensione molto limitata e laggiù, nel buio
inquietante della selva, mentre il potere della liana incomincia
a pulsare ipnoticamente dentro il tuo corpo, si può solo rendere
omaggio davanti alla maestosità di un fenomeno che ha
affascinato popoli e uomini di cui ormai abbiamo perso persino
la memoria.
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